L’attuale formulazione dell’articolo 183, comma 1,lettera a), del Dlgs 152/06 riporta la definizione di rifiuto: “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi”; si è in questo modo trasposto, riproponendo nell’ordinamento giuridico nazionale, la definizione comunitaria di rifiuto contenuta nell’articolo 1, comma 1, lett. a) della direttiva 98/2008/Ce, entrata in vigore nel nostro paese il 25 dicembre del 2010 con il D.lgs 205/2010, e di recente modificata dalla Direttiva 851/2018/CE, a sua volta recepita dal D.lgs.116/2020 che ha modificato ed integrato il testo unico ambientale.
Da tale definizione risulta evidente che mentre non sussistono particolari problemi circa l’interpretazione del criterio “oggettivo” di identificazione (qualsiasi sostanza od oggetto), maggiori problemi sono sorti in questi anni circa la necessità di interpretare la condizione “soggettiva” del rifiuto ovvero il significato da attribuirsi al termine disfarsi e sulle modalità/condizioni in base alle quali deve basarsi tale accertamento.
Risulta ormai consolidata la posizione della giurisprudenza comunitaria, cristallizzata in varie pronunce della Corte di Giustizia europea, che si fonda su due capisaldi:
a) il termine disfarsi va sempre interpretato alla luce della finalità della legislazione comunitaria ovvero la tutela della salute umana e dell’ambiente contro quelli che possono essere le conseguenze nocive che possono derivare dalle diverse attività quali la raccolta, il trasporto ed il trattamento dei rifiuti garantendo, altresì, un livello di tutela elevato corroborato dai principi che sono alla base dell’azione legislativa europea ovvero quello preventivo e precauzionale;
b) il termine disfarsi va interpretato in senso estensivo e non restrittivo mentre, al contrario, devono formare oggetto di interpretazione restrittiva le esclusioni di determinate sostanze dall’ambito di applicazione della disciplina generale dei rifiuti; in altre parole rimane sottratta al campo di applicazione della disciplina dei rifiuti qualsiasi cosa di cui il detentore non si disfi, non abbia l’intenzione o non abbia l’obbligo di disfarsi (sottoprodotti, and of waste, m.p.s.)
Partendo da tali assunti si è giunti a pronunce giurisprudenziali nazionali di notevole rilevanza sull’argomento di cui si fornisce un quadro sintetico esemplificativo e non esaustivo:
– Cassazione Penale, Sez.III 2 dicembre 2014, n.50309 con la quale la Corte confermando la condanna per gestione non autorizzata di rifiuti del titolare di una impresa che acquistava pallets difettati, non ri utilizzabili tal quali, e quindi
per ripararli e rivenderli a terzi, ha messo in evidenza come per stabilire se un residuo della produzione sia da qualificarsi come rifiuto o no, occorre considerare l’esclusiva volontà del soggetto che lo produce o lo detiene e non la volontà di colui, cioè un terzo, che può avere un interesse allo sfruttamento commerciale di quel bene non più utile al suo detentore; in altre parole gli oggetti destinati ad essere dismessi sono da ritenersi rifiuti.
Nel caso esaminato dalla Corte la stessa concludeva che i pallets erano da considerarsi rifiuti e non sottoprodotti in quanto non era certo sin dall’inizio il loro riutilizzo ma, al contrario, la circostanza che dovevano essere riparati li porta nell’alveo di una attività di recupero che andava autorizzata a norma di legge; in conclusione non bisogna guardare l’interesse che un soggetto può avere su di un bene non più utile al suo produttore/detentore in quanto se tale interesse può essere commercialmente valido certamente non può trasformare il rifiuto in qualcosa di diverso;
– Cassazione Penale, Sez. III 19 dicembre 2014, n.52773 con la quale il supremo consesso ha stabilito che il materiale florovivaistico di scarto depositato in maniera incontrollata su un terreno, è un rifiuto non avendo alcuna rilevanza quale possa essere stata la valutazione “soggettiva” di tali materiali da parte del detentore.
– Cassazione penale, Sez. III, n.48316 del 16 novembre 2016 con la quale è stato ribadito, in coerenza con quanto sopra, che l’interpretazione corretta del concetto di rifiuto è quella “estensiva” risultando non condivisibile qualsiasi valutazione “soggettiva” della natura dei materiali di cui disfarsi; nel caso in specie si trattava di rifiuti speciali non pericolosi eterogenei quali terre da scavo, raee, rottami ferrosi, veicoli fuori uso, copertoni etc etc. Con tale pronuncia viene ribadito che, secondo principi generali ormai consolidati, è rifiuto non ciò che non è più di nessuna utilità per il detentore in base ad una sua personale scelta, ma al contrario, ciò che è qualificabile come tale sulla base di dati obiettivi che definiscono la condotta del detentore; nel caso in specie la natura di rifiuto si rileva oltre che dalla diversa natura dei materiali anche dalle condizioni in cui sono stati rinvenuti dal che non poteva non concludersi che di tale materiale il detentore originario se ne era disfatto e che, dunque, nessuna rilevanza andava riconosciuta al fatto che alcuni di questi materiali, singolarmente considerati, potessero essere suscettibili di una riutilizzazione economica.
– Cassazione penale, Sez. III, n.5442 del 6 febbraio 2017 anche questa pronuncia ribadisce che l’interpretazione corretta del concetto di rifiuto è quella ” estensiva” risultando non condivisibile qualsiasi valutazione “soggettiva” della natura dei materiali di cui disfarsi; nel caso in specie si trattava di rifiuti speciali non pericolosi prodotti da una falegnameria (trucioli e segature) che invece venivano venduti come residui di produzione ad altra
impresa, senza però considerare le reali intenzioni del detentore né la natura e la destinazione degli stessi. Con tale pronuncia viene ribadito che, secondo principi generali ormai consolidati, è rifiuto non ciò che non è più di nessuna utilità per il detentore in base ad una sua personale scelta, ma al contrario, ciò che è qualificabile come tale sulla base di dati obiettivi che definiscono la condotta del detentore; nel caso in specie in riferimento alla segatura ed ai truciolati ovvero quali scarti della lavorazione del legno, la stessa Corte ha costantemente affermato la natura di rifiuti e per la pronuncia in commento non risulta sufficiente ad escludere la natura di rifiuto il fatto che i residui venivano ceduti costantemente a titolo oneroso a seguito di accordo tra le parti. Come già sostenuto in precedenti pronunce il giudice di legittimità per l’accertamento della natura effettiva di rifiuto non ci si deve porre nell’ottica del cessionario del prodotto e della valenza economica che egli gli attribuisce, ma al contrario, bisogna verificare a monte il rapporto tra il prodotto stesso ed il suo produttore ed in particolare la volontà di questi di disfarsi del bene ed in secondo luogo verificare l’elemento negativo cioè l’assenza dei requisiti di sottoprodotto ai sensi dell’art.184 bis del D.lgs n.152/06.
– Cassazione penale, Sez. III, n.52993 del 26 novembre 2018, viene ribadito che la qualificazione di rifiuto si rileva sia dalla natura dei beni che dalla loro posizione/collocazione, elementi questi che consentono di definirli come rifiuti di cui solitamente ci si disfa in quanto destinati oggettivamene all’abbandono, salvo destinarli a successivi impieghi che vanno, però, dimostrati. Nel caso oggetto di questa pronuncia si trattava di una molteplicità di oggetti di vario tipo e natura, quali imballaggi, pneumatici fuori uso, materiale di scarto proveniente da attività edile, prodotti da costruzione contenenti amianto, tutti collocati alla rinfusa su di un terreno ed esposti agli agenti atmosferici.
– Cassazione penale, Sez. III, n.46586 del 18 novembre 2019 viene ribadito che la natura di rifiuto, una volta acquisita in forza di elementi positivi (oggetto di cui il detentore si disfi, abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi, quale residuo di produzione) e negativi (assenza dei requisiti di sottoprodotto, ai sensi dell’art.184-bis), non viene perduta in ragione di un mero accordo con i terzi (talora creato proprio a tal fine); in altre parole la qualificazione di rifiuto non viene meno con la cessione onerosa dello stesso. Sostiene il supremo giudice che bisogna evitare di porsi nella sola ottica del cessionario del prodotto, e della valenza economica che allo stesso egli attribuisce in quanto è necessario verificare a monte il rapporto tra il prodotto medesimo ed il suo produttore e, soprattutto, la volontà/necessità di questi di disfarsi del bene. La Corte conclude che ragionare diversamente creerebbe aree di impunità, nelle quali numerose condotte oggettivamente integranti una fattispecie di reato ben potrebbero essere dissimulate da accordi, dolosamente preordinati, volti a privare il bene di una particolare qualità, ex se rilevante sotto il profilo penale, già acquisita a monte ed insuscettibile di essere cancellata.
– Cassazione penale, Sez.III, ordinanza n.21289 del 17 luglio 2020, con la quale viene confermata la condanna ex articolo 256, del D.lgs.152/06, di un soggetto che aveva depositato/collocato materiale edile di risulta da attività di ristrutturazione, in un terreno delimitato da un cancello chiuso. Con tale pronuncia il giudice di legittimità ribadisce che un bene diventa rifiuto al solo verificarsi dell’elemento del disfarsi per cui, la volontà di disfarsene improntata al criterio oggettivo della destinazione naturale del bene all’abbandono, desumibili dai fatti concreti e contingenti, non viene meno per l’esistenza di una recinzione o per la chiusura dell’area sulla quale sono stati sversati i rifiuti.